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Perchè “made in Italy” non sempre equivale a sostenibile?

by 31/10/2021

Ovvero … come creare una “catena di valore”

Noi di AlgoNatural lavoriamo nel campo della moda sostenibile da diversi anni ormai e abbiamo avuto modo di confrontarci spesso con clienti, persone interessate all’argomento o con altre realtà simili alla nostra. Quello che è emerso, soprattutto negli ultimissimi tempi, è il grandissimo dubbio sulla provenienza di quello che vendiamo. Ci capita, a volte, che un potenziale cliente venga in negozio e nonostante le nostre spiegazioni decida di non acquistare perché i nostri capi non sono “MADE IN ITALY”. Cerchiamo di capire bene se questa scelta ha senso. O meglio se è una scelta SOSTENIBILE.

Un capo NON prodotto in Italia è meno sostenibile?

La risposta è NO. Il discorso è piuttosto semplice in realtà. La sostenibilità di un capo non dipende dalla sua provenienza e quest’ultima non è il criterio per capire se sto acquistando un capo prodotto in maniera ETICA. Quello che dobbiamo veramente fare, l’abbiamo detto molte volte, è guardare l’etichetta e cercare una certificazione. Proprio così, le principali certificazione, come GOTS o FAIRTRADE ci assicurano che il nostro maglione sia stato prodotto nel pieno rispetto di standard rigidissimi. In qualsiasi parte del mondo. Quindi se la lana del nostro maglione è stata ottenuta in PERU’, ma è certificata GOTS, sarà comunque un prodotto etico e sostenibile lungo tutta la filiera.

Entriamo nel dettaglio: un esempio concreto

Proviamo a capire meglio di cosa stiamo parlando facendo un esempio:
un’azienda vuole produrre 10.000 t-shirt di cotone e le servono 1.000 kg di cotone bio.
Tenuto conto che in Italia non si produce il cotone, ha 2 possibilità:

La prima strada che può percorrere è: comprare in Bangladesh il fiocco di cotone (diciamo ad 1 euro al kg), portarlo in Italia e produrre 10.000 t-shirt che vende all’ingrosso a un minimo di 15 euro IVA compresa. La t-shirt dovrà essere venduta al pubblico ad un prezzo di circa 30 euro.
Ne consegue che l’economia in Bangladesh  avrà un ricavo pari a 1.000 euro, in Italia, invece, il  ricavo ammonterà a 120.000 euro al netto dell’IVA.
Conclusione? Tutto il valore aggiunto sarà in Italia.
Siamo sicuri che sia un bene?  secondo noi è una logica “colonialista” e non giova al nostro Paese; leggi la nota sotto*

La seconda ipotesi invece è un pochino diversa.
L’azienda fa realizzare la stessa t-shirt in Bangladesh in modo etico e sostenibile, pagando correttamente i lavoratori.
In questo caso la t-shirt costerà circa 6 euro, sarà venduta all’ingrosso a 7,50, sempre IVA compresa, e al pubblico costerà circa 15 euro.

In questo modo il valore aggiunto è in entrambi i paesi, in una vera logica “FAIR TRADE”.
Altro aspetto importante, l’azienda potrà vendere la t-shirt ad un prezzo più accessibile anche al cliente finale in Italia, contribuendo così a far crescere la consapevolezza dell’importanza di scegliere un prodotto realizzato in modo etico e sostenibile.

 

*nota sugli svantaggi di un sistema “colonialista”
– il paese produttore del cotone resta povero ed i giovani scappano;
– in Italia ci sono pochissimi giovani disposti a lavorare in attività fortemente manuali perchè, giustamente, dopo aver studiato puntano a lavori gratificanti;
– i giovani dei paesi poveri emigrano in Italia e vengono a svolgere i lavori manuali (in fabbrica o nei campi di pomodori)
Lo stesso principio vale per tutte le filiere in cui i paesi ricchi si appropriano delle materie prime dei paesi poveri senza apportare “ricchezza” in quei paesi (caffè, banane, minerali..)

In un sistema “fair trade” invece:
in Italia si curano  ideazione, design, marketing e logistica di un prodotto;
viene realizzato in modo etico e sostenibile nei paesi produttori della materia prima;
viene commercializzato in Europa ad un prezzo accessibile a molte persone.
Questo genera una “catena di valoreche premia soprattutto i giovani che credono nella sostenibilità.
Questo avviene nei paesi del nord Europa che, infatti, sono diventati leader nel settore della moda sostenibile con aziende gestite soprattutto da giovani.

Quindi? Dobbiamo demonizzare il “made in Italy”?

Anche in questo caso la risposta è NO. O meglio ancora dipende.
Un esempio di made in Italy e sostenibilità sono le piccole realtà di artigiani. Molto spesso esempi di etica.
La loro filiera è cortissima e i loro prodotti sono simbolo di qualità e dedizione.

Un’altra storia se parliamo di case di moda di grandi marchi che, purtroppo, parlando di “made in Italy” nascondono realtà terribili. Operai sottopagati, fibre coltivate in modo tutt’altro che sostenibile, grandi investimenti per apparire attenti al tema della sostenibilità. Ma si tratta di mera apparenza, appunto. La realtà è che si tratta quasi sempre di fumo negli occhi, meglio detto “greenwashing”. Ma di questo abbiamo già parlato qui.

Il nostro consiglio

Forse saremo ripetitivi, ma la chiave in questi casi è sempre una: INFORMATEVI. Leggete, siate critici e fate domande. Anche a noi, siamo qui per questo. Non dobbiamo per forza rispondere a domande comode, anzi. Creare un dibattito su questi temi fa parte dei nostri obiettivi.
Ci piacerebbe davvero sentire qual è la vostra opinione in merito. Il confronto sta alla base della crescita, anche per noi!

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